Proprio il mare è il grande alveo in cui la mostra, e questo dialogo, fluiscono e si celebrano.
Isole di fuoco e ghiaccio, come perle sul collo del Pacifico compongono la collana che forma questo paese unico al mondo. Isole, circondate e delineate dal mare che scorre nelle vene di quel popolo: le famigerate baleniere, il dilagante inflazionato sushi, il celebre mercato del pesce di Tokyo.
Così Hokusai, che nelle Cento vedute del Fuji incastona il vulcano in una cornice di onda, e nelle Belle vedute di Tokyo non può non includere tra le scene ed i protagonisti impressi gli alacri pescatori e le loro guizzanti prede.
Ma un’idea molto più sottile, sussurrata forse impercettibilmente, aleggia – o meglio fluttua – nella corrente di questa mostra: la fragilità della bellezza.
E quanto più è fragile e delicata, tanto più la bellezza tende alla perfezione, al divino.
Da una parte c’è la fragilità e delicatezza della carta washi su cui, attraverso matrici di legno di ciliegio, gli ukiyo-e disegnavano eleganti, nitide figure, che con determinate gradazioni cromatiche raffiguravano scene di vita quotidiana, paesaggi, fiori, uccelli, scene erotiche, attori di kabuki e soggetti fantastici.
Dall’altra c’è la fragilità del mare stesso. Impetuoso ed indomabile, sconosciuto e senza confini, fino a ieri rappresentava una sfida, una condanna ed al contempo era emblema di opportunità e promessa: adesso invece il grande polmone della vita sulla terra è sotto attacco da parte dell’uomo, e quanto mai fragile sembra resisterci con difficoltà, pronto ad arrendersi.